SCARFÈS
L’autolesionismo nella sottocultura tcharmil

Tcharmil significa, in dialetto marocchino, uno spezzatino di carne piccante marinato con diverse spezie. Recentemente, però, viene usato per indicare quella sottocultura giovanile che si è particolarmente diffusa nelle grandi città come Casablanca e Fes. L’aspetto esteriore di questa moda si manifesta con vistosi tagli di capelli, creste o disegni tribali; un abbigliamento sportivo o firmato da griffe europee e orologi enormi, spesso dorati, o lunghe catene al collo e braccialetti ad imitare le gang americane o ispaniche. Le loro armi sono dei machete e tutti mostrano evidenti cicatrici sulle braccia, sul petto e spesso anche sul collo e sul viso.

Nel 2014, anno in cui ho iniziato questa ricerca, il re del Marocco Mohammed VI ha introdotto una severa iniziativa per contrastare il fenomeno tcharmil che ha portato a numerosi arresti. La stessa opinione pubblica si è raccolta in numerose manifestazioni contro la violenza gratuita di queste gang che spesso, nelle loro incursioni dentro alla medina, arrivano a sfregiare il volto delle loro vittime.

Il titolo del progetto gioca sul significato di “scar” e “Fes”, la città; ma anche sull’associazione con Scarface, il famoso boss interpretato da Al Pacino, idolo di molti di questi giovani. Il progetto si concentra, però, non tanto sulla cultura tcharmil ma sulla forma di autolesionismo che quasi tutti loro usano come una specie di simbolo di riconoscimento o codice di appartenenza. Questa forma estrema purtroppo si è diffusa per emulazione anche tra giovanissimi diventando una vera piaga sociale. La sua pericolosità sta soprattutto nel fatto che il gesto avviene in un impeto d’ira o di rabbia, al contrario di altre forme; quindi il rischio è che l’autore dell’atto si recida una vena o un tendine.

Ho incontrato un gruppo di ragazzi a Fes, nella vecchia medina, nel 2014 e li ho frequentati in diversi viaggi per circa tre anni, ospite in casa loro. Ho vissuto assieme a loro la quotidianità fatta di piccole mance dai turisti smarriti nei vicoli della medina o dal guadagno nella vendita di hashish. Nonostante il loro rispetto per il Ramadan, questi ragazzi soffrono enormemente della chiusura della frontiera con la Spagna, il loro unico desiderio è quello di fuggire. L’Islam non regge il confronto con l’Europa, la ricchezza e le belle donne; e le cicatrici sulla loro pelle lo spiegano forte e chiaro.

L’autolesionismo nella nostra società, molto più diffuso tra gli adolescenti di quanto si pensi, è vissuto come una vergogna da nascondere. Nella cultura tcharmil, invece, è un simbolo da ostentare con orgoglio, un urlo che scatena l’orrore sociale. In Marocco questa forma di autolesionismo è più vecchia di questa sottocultura contemporanea ma le gang giovanili lo hanno adottato come simbolo, come emblema della loro ribellione e voglia di fuggire. In fin dei conti la pelle è il nostro limite e aprirne uno squarcio, in questo caso, assume anche il significato di alleviare una sofferenza interiore molto più grande del dolore fisico. Un atto estremo di autolesionismo molto più simile a quello che commettono i detenuti che non gli adolescenti occidentali. Non a caso il carcere rappresenta una delle peggiori condizioni di privazione della libertà, probabilmente come i giovani tcharmil vivono la loro realtà in Marocco all’interno dei canoni islamici.

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BIO

Giuseppe Andretta, consulente e docente di gestione digitale del colore si occupa di fotografia a livello amatoriale da molti anni. Questa fanzine è il suo primo prodotto editoriale frutto di un reportage durato tre anni.